di Marta Matteini

Quando si vola da Mosca diretti a Perm, capoluogo al limite della Russia europea ed ex stazione di posta, sorta nel XVIII secolo e oggi metropoli da un milione di abitanti, si è colpiti dalla vista di boschi sconfinati, distribuiti a macchia d'olio sull'immensa taiga che si estende sui due fronti dei monti Urali, fino alla Siberia. Sono boschi di betulle ma non solo, che si adagiano su una terra pianeggiante, priva di centri abitati per migliaia di chilometri, solcata da un reticolo di laghi e di fiumi, tra i quali spiccano il Volga e il Kama, suo maggiore affluente. Tra i tortuosi corsi d'acqua che venano la pianura, il colore dominante è il verde scuro, denso e deciso, quando non coperto di neve, del fitto della vegetazione. E allora che si percepisce che cosa significhi il bosco per l'anima russa e come mai occupi un ruolo preponderante anche nella letteratura di questo sconfinato Paese.
Qualsiasi cittadino russo considera quei boschi luoghi quasi mitici che irradiano un senso di protezione in una terra in cui la maestosità della natura ci fa sentire una nullità.
Un simile omaggio agli alberi appare nell'articolo di Guido Giubbini sull'Azerbaijan, di solito immaginato come luogo desertico e inospitale. Scopriamo invece che possiede platani imponenti e secolari, carpini, pioppi bianchi e alberi da frutto che costellano fieri le pendici del Caucaso.
Approdiamo poi in un prezioso giardino nell'Ardèche, le Jardin de Bésignoles, popolato da cinquecento specie di piante esotiche, insieme a un assemblaggio estroso di vasche andaluse, voliere, serre, tronchi vestiti per le feste dei bimbi, salottini di plastica e mobili laccati in turchese di Sèvres.
Suggestioni goticheggianti ci giungono invece dall'Appennino piacentino, e precisamente dalla Rocca d'Olgisio, costruita nella roccia della cosiddetta valle sospesa, perché frutto di una particolare erosione da parte degli agenti atmosferici. Accanto ai numerosi antri utilizzati dai partigiani nell'ultimo conflitto mondiale, si scorgono grandi massi da scalare. Questo paesaggio ha alimentato, nei secoli, storie inquietanti di mostri, incantesimi e culti sacrificali che attraggono ancora oggi. Più certa l'origine delle specie botaniche della Rocca d'Olgisio che pare risalgano a quelle piantate dai monaci benedettini, un tempo residenti del fortilizio.
Mariangela Barbiero ci diletta con il racconto di un giardino "comodo", secondo la definizione di Gertrude Jeckill, il giardino Vicario in cui "il sipario non si chiude mai" grazie a fioriture presenti in tutte le stagioni, tra cento specie di rose, grandi varietà di salvie, di graminacee e di perenni, nonché anemoni giapponesi, gerani e dalie, ortaggi in abbondanza, il tutto dominato da un'insolita torretta di compostaggio che fa da belvedere.