di Marta Matteini |
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ln un pomeriggio estivo mi sono trovata per caso a guardare un documentario canadese sulla Romania, Paese di cui non so nulla, ma per il quale provo un'inspiegabile attrazione. Dopo aver visto quel documentario e letto il reportage di Guido Giubbini pubblicato in questo numero sulle celebri chiese di legno della regione del Maramures, quell'attrazione non è più inspiegabile. Per quanto diversi nei contenuti, i due approfondimenti mi hanno confermato che la Romania resta uno degli ultimi angoli di vecchia Europa, sia in senso antropologico che botanico, dove il patrimonio naturale è ritenuto un valore e viene trattato come tale. Il documentario raccontava di una serie di guest-houses per i turisti immerse nel verde della Transilvania, e gestite da un gruppo di ex bambini di strada ormai cresciuti e formati come guide naturalistiche da un'insegnante romena, ideatrice del progetto che coniuga un servizio sociale con l'educazione ambientale. I ragazzi hanno creato la loro piccola comunità all'interno di un villaggio rurale, tra boschi e colline fiorite, dove tutti uniscono gli sforzi per preservare il paesaggio, i siti di valore storico-artistico e le tradizioni locali. L'attaccamento ai luoghi si è tradotto in un gesto d'amore collettivo difficile da vedere sulle pendici degli Appennini o delle Alpi italiane, se non dopo qualche frana o alluvione. Da noi enti pubblici e istituzioni si attivano soltanto di fronte alle emergenze, e ben poco per la manutenzione, la conservazione e la promozione del patrimonio naturale e artistico, una politica che invece lo renderebbe la nostra vera materia prima nazionale.
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