di Marta Matteini |
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Aprire il nuovo anno con un inno alla libera fruizione dei luoghi così come la natura ce li confeziona nel corso del tempo, limitando le recinzioni, le aggiunte, i percorsi guidati o le installazioni, sembra il migliore augurio per una rivista come questa. Mitigherebbe l'atteggiamento predatorio e colonizzatore che contraddistingue l'umanità da secoli e che oggi raccoglie i suoi tristi frutti. Ci insegnerebbe a "leggere" l'ambiente con occhi più consapevoli e rispettosi di ciò che esiste, cresce e prospera in un luogo. Abolirebbe le gerarchie dei paesaggi: non ci sarebbero più quelli che meritano di essere preservati più di altri. Innescherebbe un'inversione di tendenza, quella che porta a creare sempre una cornice di qualche tipo che orienti la fruizione degli spazi destinati alla collettività. Sarebbe un po' come spegnere le musiche di sottofondo che ci assillano nei centri commerciali, nei negozi, sulle banchine della metropolitana e negli aeroporti. Se i luoghi pubblici non hanno bisogno di un accompagnamento musicale che sovrasti le voci e lo scalpiccio dei passi, tanto meno un ambiente naturale ha bisogno di interventi che riempiano tutti i vuoti e i silenzi. Mi sembra questo lo spirito che anima l'articolo di Anna Kauber sul recupero di un nuovo troncone della High Line, la celebre ferrovia sopraelevata ai New York, costruita negli anni Trenta, poi abbandonata nel 1980, di recente sistemata a parco e aperta al pubblico. La Section 2 riserva alcune sorprese che sembrano contraddire il progetto botanico di Piet Oudolf, il creatore del parco, cultore della vegetazione arborea e spontanea. Ma la visita si rivela affascinante fino alla fine, ossia fino alla stazione di partenza dell'antica ferrovia. Da li si scopre un terzo troncone ancora in totale abbandono, di recente salvato dalla voracità degli immobiliaristi che erano già pronti a edificare su quel milione di metri quadrati di superficie urbana "vuota". La storia e l'oggettiva bellezza del parco della High Line vanno tutelate, come concorda Cecilia Alemani, giovane neocuratrice del parco, responsabile delle installazioni artistiche. I suoi allestimenti, poco invasivi e in sintonia con l'ambiente naturale che le ospita, rientrano, almeno per ora, nei canoni della site-specific environmental art. Nell'articolo sulla Valsesia la rivincita della natura è ancora più stupefacente. Si tratta di un lungo racconto sulla valle del Monte Rosa, considerata la più verde d'Italia, descritta dall'occhio esperto di Mario Soster che ne approfondisce gli aspetti botanici e geologici con estrema cura, tracciando una mappa assai scenografica del Parco Naturale Regionale dell'Alta Valsesia. Rivalutare un habitat che non sempre è riconosciuto meritevole di attenzione è invece l'intento del testo su Kylemore Abbey, nella regione irlandese del Connemara. Qui, Guido Giubbini riscatta l'onore perduto degli orti rispetto ai giardini, ritenuti più blasonati. Racconta le meraviglie dell'orto-giardino, creato nel secondo Ottocento dal magnate inglese Mitchell Henry: quasi tre ettari di terreno, ventun serre riscaldate, con tanto di illuminazione. Il castello divenne abbazia nel 1920, quando fu acquistato da una comunità di religiose cattoliche belghe, ben accolte dalla neonata repubblica irlandese. Il grande giardino vittoriano e lo spettacolare kitchen and herb garden, restaurato a partire dagli anni Novanta, sono oggi visitabili, incorniciati dai trecentomila alberi piantati da Mitchell Henry e dalle cime aspre del Connemara. Infine, per i cultori delle rose, pubblichiamo un articolo dal sapore esotico: la storia di un giardino nella città giapponese di Sakura, creato dal celebre ibridatore Seizo Suzuki che in sessant'anni di attività ha creato 129 varietà di rose moderne. La sua preziosa collezione di rose storiche e la biblioteca sono passati nelle mani del suo allievo, Katsuhiko Maebara che ha fondato il Rose Culture Institute e, nel 2006, ha reso possibile l'apertura di un Rose Garden nei boschi municipali vicino al Tokyo's Narita Airport. Tra 2500 piante di oltre mille varietà, spicca una sezione battezzata "Santa Maria Valley Garden", in onore di alcune rare Rose Cinesi e ibridi di Gigantea provenienti dal giardino umbro dell'autrice stessa dell'articolo.
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