e,
se ci fosse la giusta sensibilità, anche dei parchi e del verde
pubblico. Di pari passo, questo mutamento demografico dovrebbe portare
con sé maggiore attenzione e rispetto nei confronti della terza
e quarta età da parte delle generazioni più giovani. Invece
questo non accade per una peculiarità tutta italiana. Come è stato
denunciato da più parti, la nostra gerontocrazia blocca il ricambio
generazionale e la mobilità sociale (basta guardare il governo,
il parlamento, le università e gran parte delle posizioni di
potere), dunque una certa insofferenza verso i vecchi può essere
comprensibile, per quanto non giustificata.
Forse, per porre fine a questo paradosso,
basterebbe tornare ad ascoltare chi ha vissuto a lungo cogliendo il valore
della loro esperienza e farla propria. Raccogliere testimonianze del
passato e farne tesoro è un tema sempre attuale in un paese che
sta perdendo la memoria come il nostro ed è stato sollevato da
David Bidussa nel suo saggio Dopo l'ultimo testimone riguardo
alla Shoah. Quando non ci sarà più nessuno a raccontare
quei fatti, scrive l'autore, dovremo andare oltre le commemorazioni e
iniziare a
interrogarci su di noi che siamo venuti dopo. Quel filo non va spezzato
perché è da lì che noi veniamo. Coltivare la memoria
serve proprio a farci capire meglio chi siamo.
Tutte queste riflessioni mi sono state sollecitate dall'articolo di Gian
Lupo Osti, De Senectute in Hortu. A metà tra il trattato
filosofico (vedi l'eco ciceroniana nel titolo) e il mémoire, è un
testo in cui l'autore narra come ha sviluppato la passione per la
botanica e per la natura nel corso della sua vita, alquanto interessante
e movimentata. E sottolinea una serie di nessi illuminanti tra le relazioni
umane e quella che si stabilisce con un giardino. La necessità di
procedere per gradi, l'importanza di una griglia di connessioni
con l'ambiente circostante e il fatto che non esistono mai soluzioni
semplici, bastano a farci capire quanto un giardino riassuma la
vita stessa, con tutta la sua impermanenza.
Ma l'insegnamento che
più mi ha colpito è che Osti non parla alle piante, bensì le
ascolta. Mettersi in ascolto, dunque, mi sembra davvero il filo
rosso di questo numero di Rosanova. Lo ritroviamo, per esempio, nella
paziente avventura di costruzione, ricostruzione e metamorfosi del
giardino di Arena Po nell'ex fossato del castello visconteo, passato
dalle mani del colonnello Aldo Beretta a quelle della figlia Maria
Laura e del genero Guido Giubbini circa trent'anni fa. "Il giardino è un
gioco che accompagna la vita", racconta Giubbini, ribadendo
la connessione intima e mutevole tra piante e umani.
Un'intimità e un "ascolto" che riappaiono, seppur in
forma diversa, nelle opere di Kathryn Gustafson, artista americana che,
dopo il Fashion Institute of Technology di New York è approdata
al paesaggio studiando a Versailles. Prima di ogni suo intervento, Gustafson
penetra la storia del luogo, la sua memoria, le sensazioni e le percezioni
che suscita. Non a caso inizia elencando le parole che le evoca il preesistente.
Fonde l'organico con lo spirituale, vede il terreno come una pelle, un
rivestimento da modellare, ne sfrutta le sinuosità naturali scolpendo
il paesaggio, spiega Gabriella Recrosio. E il tutto è tenuto insieme
dalla presenza dell'acqua, elemento centrale delle sue creazioni.
Da qui passiamo poi al luogo privo di acqua per eccellenza, l'Arabia,
esplorandone un angolo insolitamente ricco dal punto di vista botanico.
Paola Pistogini Von Aulock ci accompagna tra le meraviglie dell'Asir,
regione popolata di ginepri, acacie e ulivi, e del Jebel Shada al
Ala, massiccio di granito rosa, costellato di nidi di avvoltoi e aquile,
dove Sheila Collenette, naturalista inglese, ha individuato rare specie
di orchidee e ibiscus, tra arbusti alti fino a due metri e manti erbosi
sulle pareti rocciose. Un'oasi botanica insospettata dove si avvistano
anche animali rari, come il leopardo arabico e la lince persiana.