di Marta Matteini

Parlare di rovine nei mesi estivi può sembrare un incoraggiamento a visitare i tanti siti archeologici e i ruderi più o meno blasonati della nostra penisola e dell'intera regione del Mediterraneo. In realtà è un pretesto per andare alla scoperta della vegetazione spontanea che nasce e si sviluppa dove la presenza dell'uomo è venuta meno. I botanici parlano di "flora ruderale", ma definendola poco degna di nota,

mentre Guido Giubbini, nell'articolo "Fiori tra le rovine" arriva al punto di associare i maggiori siti archeologici del Mediterraneo e del Medio Oriente a precise specie selvatiche in cui si è imbattuto quando li ha visitati. Osservare queste piante così poco valutate che convivono con resti secolari densi di storia, è come scoprire un universo dimenticato. Spesso spazzato via dall'intervento umano per attuare gli scavi o per bonificare, come nel caso delle 420 specie catalogate nel Colosseo dal botanico inglese Richard Deakin a metà '800. Solo vent'anni più tardi vennero sradicate "per fare pulizia" e liquidate come erbacce che impedivano di cogliere a pieno la bellezza delle colonne e dei porticati. Eppure basterebbe osservare le celebri litografie del pittore scozzese David Roberts che documentano il suo viaggio da Suez alla Palestina passando per Petra nella prima metà dell'800, per capirne l'importanza. Nel diario di Roberts si legge che Petra era (ed è tuttora) "una città straordinaria, situata in mezzo alle montagne, circondata dal deserto, ma in cui abbonda ogni tipo di vegetazione". E, avendo attraversato quei luoghi di persona, posso confermare che le macchie di verde si fondono perfettamente all'insieme e ne accrescono la sacralità e l'immanenza. Del resto, William Gilpin, studioso inglese che teorizzò la "Picturesque beauty" a fine '700, diceva che un paesaggio, per essere pittoresco, aveva bisogno di alcuni ingredienti fondamentali, tra cui il sublime e qualche abbazia o castello diroccato. Un'atmosfera che a volte si può ritrovare, come racconta ancora Giubbini, anche contemplando la varietà della vegetazione spontanea cresciuta nelle voragini lasciate in tante città dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Dalle rovine costellate di cespugli alla pittura di fine '700 e primo '800 il passo è breve perché sono proprio certi paesaggi italiani a incarnare il pittoresco. I pittori del nord Europa venivano in Italia e sulle sponde del Mediterraneo a cercare il mito e la luce, come si legge nell'articolo "I luoghi delle Ninfe" che descrive l'evoluzione di tre celebri giardini in cui storia e natura si sono fusi in perfetta armonia.
Non mancano due scorci affascinanti di paesaggi nordici. Il ricchissimo giardino di Kerdalo, in Bretagna, creato dal principe russo Peter Wolkonsky, poi passato nelle mani della figlia Isabelle e del marito che lo hanno riportato in vita dopo un periodo di abbandono. E il giardino del Powis Castle in Galles, trasformato in uno dei più belli della Gran Bretagna grazie alla dedizione di un'altra donna, Violet Herbert, che lo salvò dal degrado.
In ultimo, un reportage storico-artistico sullo Sri Lanka, dove sono visibili giardini, monasteri e palazzi precedenti al 1000 a.C.
Gianni Biaggi ci fa scoprire, tra le tante bellezze di quella terra, la dagoba cingalese, il cuore architettonico dei monasteri, le cave di Dambulla, templi buddisti ricavati nella roccia e l'onnipresente e venerato Bodi Tree, l'albero sacro sotto il quale Buddha ricevette l'illuminazione.