di Marta Matteini

Questo numero possiede più di altri alcune riflessioni di fondo sul rapporto tra esseri umani e natura, su come viverlo e come esprimerlo. Nell'articolo "Un prato di dodicimila anni" di Guido Giubbini, si legge: "In attesa che un grande scrittore ci elargisca un modello linguistico e stilistico di riferimento per la geologia e la botanica e il mondo della natura in generale, dobbiamo arrangiarci come possiamo".

E' bastata questa frase per farmi tornare a Walden, ovvero la vita nei boschi di David Henry Thoreau, pubblicato negli Stati Uniti nel 1854. Eletto a manifesto di una certa controcultura americana oltre un secolo più tardi, è il resoconto dei due anni trascorsi dall'autore in una capanna e in totale solitudine. Se ai tempi dell'università i lunghi paragrafi dedicati alla vegetazione di quel bosco del Massachusetts mi erano sembrati pedanti, adesso li considero un buon esempio di letteratura "ecologica" che celebra i cicli, i tempi e le infinite voci della natura. L'articolo sulle pozzine corse, comunque, non è da meno. La formazione di questi "pozzi alpini" è presentata come una narrazione in cui foglie, radici, acqua e torba sembrano attori che si muovono indisturbati in uno scenario spettacolare, tuttora intatto.
Una comunione profonda, non solo fisica e sensoriale, con gli elementi naturali emerge anche dai pascoli, i boschi, le praterie, i torrenti e i giardini selvaggi descritti nell'articolo "Val Maubrune" di Anna Porrati. Ne traspare una filosofia di vita sempre più seducente in quest'epoca di saturazione materiale. Un esempio recente è il film Into the Wild - Nelle terre selvagge di Sean Penn, ispirato all'avventura di Christopher McCandless, un ventenne americano che, nei primi anni '90, dal sud degli Stati Uniti raggiunse a piedi l'Alaska, alla ricerca di una rinascita personale. Una storia vera (anche se estrema) che fa meditare su quanto la natura possa placare la sofferenza interiore e l'inquietudine.
L'appartarsi dal mondo civilizzato, però, a volte produce sorprese. Lo esprime bene Christa Wolf, in un estratto del 1981, in cui ammette che la campagna, cercata agli inizi per fuggire dalla città, le dà invece "una sensazione di pienezza di vita".
Sempre sulle tracce di grandi maestri, anche l'articolo sul Salento tra '800 e '900, con un'interessante ricostruzione del giardino di agrumi e del suo processo di "toscanizzazione", inaugurato dal paesaggista Pietro Porcinai a partire dagli anni '30. Altrettanto preziosa la testimonianza di Libereso, giardiniere formatosi sotto la guida di Mario Calvino, direttore della Stazione sperimentale di floricultura e ricerche su piante tropicali di Sanremo, di Eva Mameli, la moglie nonché stimata botanica, e di Lawrence Johnston, protagonista di esplorazioni botaniche nell'estremo Oriente. Libereso ricorda quanto i coniugi Calvino fossero animati da una profonda passione per il regno vegetale, tratto che doveva aver ereditato anche il figlio Italo, diventato poi uno dei maggiori scrittori del '900 italiano. Sarà forse per questo che Cosimo, il protagonista dell'indimenticabile Il barone rampante, sceglie di vivere sugli alberi come un selvaggio.